'Cucina e Santi', il libro che ti fa dire: "Grazie al Cielo sono ligure" - LevanteNews
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Meditando sulla civiltà del minestrone

‘Cucina e Santi’, il libro che ti fa dire: “Grazie al Cielo sono ligure”

Generico agosto 2024

Te li do io la cucina gourmet e il fine dining, si potrebbe sottotitolare questo capolavoro dimenticato, “Cucina e Santi”, firmato da Vito Elio Petrucci per edizioni Pirella (1995). Per trovarlo, bisogna ormai curiosare fra gli scaffali delle biblioteche o spendere qualche decina di ero in una libreria dell’usato. Soldi spesi bene, senza dubbio, perché penne come Petrucci non ne fabbricano più, e libri di gastronomia declinati in uno stile lirico sono ormai fuori dalle corde del mercato editoriale.

Te la do io la cucina gourmet, insomma, perché se siete stanchi della spettacolarizzazione culinaria, del narcisismo “fornellistico” e delle food experience, questo è il libro che fa per voi: un vero e proprio inno alla civiltà del minestrone in un duplice senso: del mosaico di ingredienti che ne scandiscono la sintesi e del piatto vero e proprio, a cui è dedicato uno spassoso capitolo dove impariamo a distinguere il piatto tipico dell’area mediterranea, il minestron, da quello genovese, o menestron. Che è un’altra cosa, “che non è figlio del bisogno, della casualità, ma una vivanda che ha precise regole da rispettare”. E allora via con la ricetta: “Fagioli freschi grixi, melanzane piccole, fagiolini in erba, qualche patata, foglie di cavolo, poca zucca, qualche pomodoro rotto e i soliti funghi secchi, una costante in tutti i nostri piatti (…) tutti elementi che attendono un pilota che arriva un attimo prima di togliere dal fuoco: il pesto”. “In inverno – però – muta il panorama della composizione; fanno da padroni cavoli, patate e zucca, mentre fagioli, piselli e fave sono secchi”.

A proposito di pesto, alfa e omega del tradizionalismo che troppo concede alla forma per non inclinare pericolosamente verso una cucina con poca sostanza: “In inverno erano tollerati prezzemolo e maggiorana per il verde, però sempre con qualche foglia secca di basilico per il profumo”. Già, il basilico, “che del pesto è il corpo mentre l’aglio ne è l’anima”, “un’erba che non tende a naturalizzarsi in Liguria”, dove “il non naturalizzare sta al non dare confidenza, allo “stare sulle sue” della gente di qui. In Liguria il basilico non ha trovato il suo ambiente, però a Genova ha sicuramente incontrato l’uomo adatto, che lo ha capito”.

‘Cucina e Santi’ è dunque un’apologia della cucina vera, e quindi povera, perché costruita sull’apologia dell’amalgama, ossia sulla sfida di mettere in fila soggetti, verbi e complementi culinari tratti alla natura dall’immane sforzo dell’uomo; costruita in modo da ritrovarsi, infine, con un ‘testo’ capace di senso compiuto e, soprattutto, gradevole al palato. E’ il caso delle torte di verdura, dalla torta di cipolla – il primo piatto della cucina genovese che appare pubblicato in un ricettario, quello di Bartolomeo Scappi edito a Venezia nel 1557 – alla Torta Pasqualina, “che non ha per tradizione carciofi” e sulla quale pendono un paio di gialli non risolti. Il più clamoroso, “quello del numero delle croste”. “Le cuciniere più antiche – ci informa Petrucci – parlano di ventisette. Si potrebbe parlare di un minimo: tre sotto che facciano da camera d’aria per tenere l’impasto non leppegoso, e tre sopra per darle il suo aplomb”.

Vito Elio Petrucci, però, era soprattutto un poeta, e ‘Cucina e Santi’ così va letto: come un libro di poesia in prosa. Sulla farinata (Petrucci cita espressamente quella di Luchin a Chiavari), si potrebbe dire che è una vincita facile: “È pronta quando, alla luce della fiamma delle fascine, diventa un lago dorato con il brillo della lava incandescente”. Sullo zucchino, invece, serve una certa maestria, una penna educata e sinapsi molto articolate: “Raccogliere gli zucchini dalla pianta, un cespo con tante foglie e fiori gialli da sembrare disposti da un fioraio, stringendo il gambo robusto, quasi fatto a bullone, coperto di peli, resistenti fino a fare il solletico, è una esperienza straordinaria: il cogliere fior da fiore di Matelda”. E a proposito di zucchini, la sua fortuna è nel farlo ripieno ma – qui Petrucci svela una sua preferenza – la palma di regina della teglia spetta alla melanzana.

Le pagine più belle sono però dedicate a due universi molto diversi che qui si toccano, perché entrambi parte di una storia antica, la nostra. Parliamo del fico, la cui lacrima è segno di dolore,” il suo latte non nutre e le sue gemme, a primavera, paion preghiere offerte da un candelabro nodoso e osannante. (…) Trovarsi sotto l’ombrosa chioma di un fico in un assolato pomeriggio, allungare la mano, raccogliere un frutto fatti opaco dalla perfetta maturazione, spaccarlo al centro, che il suo fuoco infiammi gli occhi, e metterlo in bocca staccando con i denti la polpa dalla buccia, tenuta per il piccolo, è l’appagamento della libido più sconvolgente”.

E, infine, ma non certamente in ordine di importanza, sua maestà la focaccia, che va introdotta in bocca rovesciata, con la parte insaporita verso il basso, perché entri immediatamente in contatto con le papille gustative e non sappia di pane: “Per il ligure ha un qualcosa di etnografico, come il trallallero: c’è dentro il senso, se non il senno della genovesità”. Quindi, repentina, una piccola deviazione: “Come in tutte le opere dell’uomo, nel coro delle focacce c’è la voce solista, ed è la focaccia col formaggio di Recco: “Canta da sola con quelle due croste da Pasqualina e quel formaggio che cola come nettare”.

Chiuso il libro, vien solo da ringraziare il Cielo di essere liguri e di considerare tutto  questo ben di Dio la più semplice delle normalità. Ognuno ha la sua, certo, e in Italia non mancano tradizioni culinarie persino più rinomate della nostra. Ma alzi la mano chi la baratterebbe con un’altra.

Generico agosto 2024

 

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