A cerreto di carro

Chiavari: festa di Sant’Antonio Gianelli, l’omelia del vescovo

Da don Luca Sardella, direttore Ufficio per le Comunicazioni sociali e portavoce della Diocesi

Si allega l’omelia tenuta ieri pomeriggio dal Vescovo diocesano, mons. Giampio Devasini, nel corso della Concelebrazione eucaristica a Cerreta di Carro in occasione della festa di Sant’Antonio Maria Gianelli. L’Eucaristia è stata presieduta dal Vescovo di La Spezia-Sarzana-Brugnato, mons. Luigi Ernesto Palletti.

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Cari fratelli e sorelle,
paragonandosi ad un pastore, anzi, a un buon pastore, Gesù si presenta come il nostro custode, che ci accompagna negli spostamenti della vita, ci aiuta a trovare il cibo per andare avanti, ci protegge dai pericoli. Ma Gesù dice anche una cosa che non si era mai sentita prima: dice di essere un pastore che «dà la propria vita per le pecore». Né i greci né gli ebrei, pur paragonando le loro guide ai pastori, erano arrivati a tanto. A pensarci bene, neppure l’immagine del pastore di per sé comporterebbe questo sacrificio. Non è ragionevole, è eccessivo. Un pastore deve sì difendere il gregge se vede arrivare i lupi e i
briganti, ma non gli si può chiedere di farsi uccidere o sbranare: oltretutto non servirebbe a niente, perché poi i ladri e le bestie feroci, ucciso il pastore, attaccherebbero comunque il gregge. Gesù quindi arriva a una vera e propria forzatura dell’immagine del pastore. Perché? Il motivo è che vuole esprimere l’eccesso del suo amore per noi. Ci ama in modo esagerato, senza misura, andando oltre la logica. La fede è accogliere questo amore esagerato, smisurato, illogico e, con Gesù e come Gesù, donare la mia vita all’altro perché l’altro abbia vita, perché io abbia vita.
E l’amore si apre, non mette recinti, evita i muri invalicabili. Gesù infatti continua: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare».
Nessuno ha l’esclusiva sul pastore, nessuno lo può rinchiudere in un solo recinto. Gesù si sente il pastore di tutti, non solo di quelli che già gli appartengono. E allora il cristiano non può recintare il suo cuore chiudendosi agli altri, facendosi prendere dalle paure per tutto quello che è fuori dal proprio ovile. Forse è questa la malattia più insidiosa per le nostre comunità: la malattia del recinto. Se davvero ci sappiamo guidati dal buon pastore, che non tollera i reciti, dobbiamo toglierli anche dal nostro animo e imparare ad accogliere gli altri e ad essere accolti dagli altri, ascoltandoli senza precomprensioni e testimoniando loro con i comportamenti prima ancora che con le parole l’amore esagerato, smisurato, illogico e, appunto, senza recinti di Cristo Gesù.
Cari fratelli e sorelle, sant’Antonio Maria Gianelli è stato immagine viva e trasparente di Gesù buon pastore; sant’Antonio Maria Gianelli ha pienamente incarnato il brano di Vangelo che abbiamo ora ascoltato e che è il medesimo ch’egli commentò nella sua omelia di ingresso come vescovo di Bobbio.
Cari fratelli e sorelle, se dovessi elencare tutte le iniziative di carità, di preghiera, di predicazione, di formazione del clero e dei laici del Gianelli in diocesi di Chiavari (sapete bene che fu parroco di san Giovanni Battista in Chiavari per 12 anni, dal 1826 al 1838) andrei fuori tempo massimo tante esse sono: impressionante! Tutte queste iniziative hanno però un denominatore comune: l’anelito alla santità.
E allora permettetemi di concludere richiamando brevemente le riflessioni del Gianelli appunto sulla santità, riflessioni che risultano di una attualità sorprendente. Per il Gianelli tutti siamo chiamati alla santità e c’è una santità per tutti. Così scrive: «Tutti siamo obbligati a farci santi e tutti possiamo farcela se lo vogliamo; tutti dobbiamo farci santi, tutti possiamo farcela, facciamocela davvero». E proprio perché la santità è chiamata per tutti, essa non consiste in attività o scelte particolarmente eccezionali, ma passa dal feriale, dal quotidiano, dalle piccole cose di tutti i giorni fatte bene, fatte per piacere a
Dio, nella carità. Per essere santi, sempre secondo il Gianelli, occorre un metodo di vita, un progetto, una pedagogia: occorre percorrere un cammino. La volontà di Dio è norma per tutti, ma poi si specifica per ciascuno nei doveri del proprio stato: «La divina volontà in generale è la santa sua legge, la divina volontà per ciascheduno in particolare sono i doveri del proprio stato. Adempiteli e sarete santi. In tutti i mestieri del mondo ci sono dei santi e in tutti ve ne possono essere: ma quelli si sono fatti santi e noi
dobbiamo farcela con l’adempimento dei nostri doveri».
«Eccovi, dunque, il secondo mezzo a perseverare: fissarsi un metodo e un regolamento di vita da osservarsi sempre. Stabilite d’ogni quanto tempo andarvi a confessare: come vi regolerete nei dì di festa, come farete a pagare i debiti e come farete ad adempiere tutti gli altri doveri del vostro stato; …e quando abbiate risoluto, cominciate subito ad eseguire, non perdete tempo, non lasciate passare né settimana, né giorni, né ora. Fate piuttosto qualcosa di meno, ma fatela pronta, fatela sempre e non la differite mai senza una grave necessità (“il maledetto farò”, ndr)».
«Vogliamo dunque andare in Paradiso come si deve? Bisogna che cerchiamo di andarvi con tutti i nostri prossimi: bisogna che desideriamo la salute anche dei turchi, degli ebrei, dei gentili, e perciò, che li amiamo. Bisogna che desideriamo anche quella dei nostri nemici e, perciò, che li amiamo. Volerci andare per un’altra strada sarebbe camminare in basso mentre vogliamo andare in alto, un camminare a ponente mentre vogliamo andare a levante».
Cari fratelli e sorelle, buon cammino di santità…ovviamente insieme perché non si diventa santi da soli. Sì come scriveva ancora il Gianelli: «Santificarsi, santificando, cooperando alla santificazione altrui». Amen