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Al santuario mariano di montallegro

Rapallo: Giornata sacerdotale, l’omelia di mons. Devasini

Montallegro santuario

Da don Luca Sardella, direttore Ufficio per le Comunicazioni sociali portavoce della Diocesi di Chiavari

Testo dell’omelia tenuta questa mattina dal Vescovo diocesano, mons. Giampio
Devasini, nel corso della Celebrazione eucaristica per la Giornata sacerdotale al
Santuario mariano di Montallegro a Rapallo.

Cari fratelli presbiteri,
anche noi – per usare l’immagine ed il lessico del Vangelo – siamo chiamati a pascere le pecore, a pascerle annunziando la Parola, a pascerle celebrando i Sacramenti, a pascerle con la testimonianza di una vita abitata dalla tensione ad essere discepoli dell’unico Maestro, tensione che si esprime, tra l’altro, nella cura di una relazione buona tra noi presbiteri.
E con riferimento a questo terzo pascere, vi dico: guardiamo ai Dodici.
Si sono scelti fra di loro? No, sono stati scelti. Proprio così: persone nella maggior parte dei casi estranee tra di loro, i Dodici ad un certo punto ed in momenti diversi incontrano Gesù di Nazareth e decidono di seguirlo senza sapere dove quel rabbi li avrebbe portati e con chi altri avrebbero condiviso quell’avventura. Si fidano di Gesù, si affidano a Gesù, scommettono sul sogno di Gesù. E a poco a poco capiscono che sono chiamati a fidarsi non solo di Gesù ma anche gli uni degli altri e che dunque avrebbero dovuto sforzarsi di conoscersi reciprocamente, di accogliersi, di sopportarsi e anche di guardarsi senza pregiudizi sulle storie di ciascuno e anche sull’idea di Dio che ognuno si portava dentro.
Non fu per nulla facile e i Vangeli ce lo narrano.
E Gesù? E Gesù sa bene con chi ha a che fare. Non sceglie i Dodici per i loro meriti.
Forse li sceglie per aver colto un ancora informe desiderio di pienezza di senso, di
pienezza di vita che li abitava e a cui solo la condivisione del suo sogno avrebbe potuto dare compiuta risposta…chi lo sa. E li prende così come sono, senza alcun test
d’ingresso e senza pretendere alcuna perfezione ma ponendo come unica condizione
quella di fidarsi di lui. Lui avrebbe fatto il resto. E il resto sarebbe consistito non solo nel portarli con lui nel sogno di cui ho parlato già due volte e cioè in quel grande e
improbabile progetto che si chiama Regno di Dio, ma anche nel trasformarli da un
semplice gruppo di sconosciuti in una comunità di fratelli. E per far questo, Gesù, con infinita pazienza, impara a conoscerli, entra passo dopo passo nelle loro storie,
accompagna i loro tempi, sopporta le loro fragilità, e soprattutto impara a voler loro
bene così come sono, per quello che la loro umanità offre.
Cari fratelli, noi siamo quei Dodici.
Un tempo anche noi, in molti casi, non ci conoscevamo, eravamo estranei gli uni agli
altri. E io ancor di più che sono arrivato qui da poco meno di tre anni.
In storie e tempi diversi il progetto di Gesù ha incrociato le nostre strade, abbiamo
risposto alla sua chiamata, fino a quando ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a
camminare insieme. Anche noi abbiamo dovuto imparare a chiamarci per nome, a
procedere l’uno accanto all’altro, a conoscerci più in profondità, e poi  inevitabilmente non solo a scoprire poco alla volta le fragilità degli altri, ma anche a svelare i nostri limiti, le nostre debolezze e le nostre ferite. A quel punto abbiamo iniziato probabilmente a guardarci con occhi diversi e a rapportarci in modo diverso, fino a che, pian piano, e magari anche senza accorgercene, le nostre povertà hanno iniziato a prendere il sopravvento sulla bellezza del sogno divino che ci ha fatto incontrare e della scommessa del Regno che ci ha accomunati.
Il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che le incomprensioni ci tengano distanti e ci facciano trattare con sospetto; il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che le diversità di vedute e di pensiero ci spingano ad allontanarci; il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che le ferite degli altri siano il pretesto per alimentare pregiudizi piuttosto che il terreno per accoglierci nella nostra umanità; il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che la presunzione di una superiorità spirituale e culturale trasformi lo sforzo della comunione in una latente competizione; il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che la lecita affermazione dei nostri carismi e delle nostre capacità diventi arrivismo anche a scapito del confratello, anzi spesso proprio ai danni del confratello.
Ecco, credo sia cosa buona domandarci ogni tanto: non è che ci stiamo lasciando
zavorrare da queste dinamiche che rischiano di appannare il senso della nostra missione, di relegarlo ad un secondo piano e alla fine di mettere al centro il nostro ego piuttosto che il Vangelo?
Lo so che non ci sono bacchette magiche. Non sono così ingenuo – e nessuno di noi lo è – da pensare che tutto questo si superi con una preghiera o con un generico e
spiritualista invito a volersi bene. Non mi sfugge e non deve sfuggire a nessuno di noi il fatto che prima che preti, ognuno di noi è innanzitutto portatore di una umanità con una sua impronta, una sua unicità, e con tanto di resistenze, di spigoli più o meno fastidiosi e più o meno malleabili, e con un proprio desiderio di affermazione: ma è su questa umanità che si è innestata la chiamata del Signore per ciascuno di noi, è a questa sua unicità che lui ha affidato l’annuncio del Vangelo. Non ad una umanità ideale. È chiaro perché san Paolo dirà che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1, 27-28): per dire non solo l’inevitabilità di quello che ciascuno di noi è, in modo che nessuno lo viva come un alibi, ma anche per dire che paradossalmente sta proprio in questo lo scandalo del Vangelo.
Fragili, non super uomini. Così erano i Dodici, così siamo noi; ed è su questa umanità che ha lavorato e lavora Gesù, ed è su questa roccia che ha poggiato e poggia le fondamenta del suo sogno, senza mai illudersi che quei dodici potessero, che noi
possiamo diventare perfetti.
E d’altronde cosa significherà quel “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35), il testamento che Gesù metterà nelle mani di tutti a partire proprio dai suoi amici più stretti? E cosa significa per noi oggi, presbiteri di questa Chiesa chiavarese? Penso vada letto in questo modo: è da come vi accoglierete, è da come vi accetterete per quello che siete, è dalla capacità che avrete di avere occhi l’uno per altro, di aspettarvi nei momenti di incertezza, di rispettarvi nei tempi, è dal coraggio di vincere gli steccati dei reciproci pregiudizi, di sentirvi tutti responsabili nello stesso modo dell’unico percorso: è da tutto questo che capiranno che siete miei discepoli, perché vedranno riproporsi fra di voi esattamente quello che io ho fatto con voi.
E cosa significherà quel gesto così imbarazzante che Gesù farà alla fine di quell’ultima cena quando lavando i piedi dei suoi amici dirà: “Se dunque io il Signore e il Maestro ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14)? Anche qui mi sembra che dica: come io mi sono preso cura di voi, come io mi sono piegato sulle vostre fragilità, come io ho rispettato le vostre ferite senza mai giudicarle, nello stesso modo anche voi prendetevi cura l’uno dell’altro perché il futuro del mondo sta proprio nella capacità di passare dalla logica perversa del “non mi interessa” alla bellezza del dire “tu mi stai a cuore”.
È per questo che Pietro si ribellò dinanzi a quel gesto? Forse sì. Probabilmente aveva
capito che quel mondo capovolto che sarebbe andato ad annunciare è proprio da lì che doveva iniziare, dai suoi compagni di strada, da quel gruppo di amici, da quelli che nel tempo aveva conosciuto anche nei limiti e nei peggiori difetti.
Cari fratelli presbiteri, la meta che ci attende è alta, lo sappiamo tutti molto bene e lo
sappiamo per esperienza. Rinunciarvi significa esporsi al rischio del fallimento come
cristiani e in particolare come presbiteri. E allora non rinunciamo a questa meta. E
quando la fatica prende il sopravvento, e la debolezza della nostra umanità non ci aiuta a guardare con speranza l’oltre, e ritorniamo ad appiattirci tra pregiudizi e rivalità, abbandoniamoci ancora una volta fiduciosi a quel Maestro che un giorno ci ha fatto incontrare e ci ha messi insieme e umilmente chiediamogli con don Tonino Bello: “Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli nel cenacolo, gonfia di passione la nostra vita di presbiteri. Riempi di amicizie discrete la nostra solitudine. Rendici innamorati della terra e capaci di misericordia per tutte le nostre debolezze”. Amen.