'Santa' ricorda il mitico giornalista Alfredo Marchesini - LevanteNews
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Si trasferì nel tigullio per amore

‘Santa’ ricorda il mitico giornalista Alfredo Marchesini

‘Santa’, in una rassegna dedicata al giornalismo, ricorda Alfredo Marchesini di cui palerà Paolo Fizzarotti che qui traccia un profilo del papà dell’assessore Patrizia Marchesini

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Alfredo era un uomo molto riservato, è stato possibile scrivere questo ricordo solo mettendo insieme i pezzi di memoria di varie persone, come una coperta patchwork. Ringrazio quindi i colleghi Gessi Adamoli, “Ciccio” La Spina, Marco Massa, Tarcisio Mazzeo, Franco Ricciardi e soprattutto la figlia Patrizia Marchesini

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Bocce, biliardu e ballùn: o t’ei bun, o no tei bun.  Quindi in questi ambiti, niente vie di mezzo. Alfredo Marchesini era un uomo di poche parole e molti fatti, ma quando apriva bocca  le sue erano sentenze che pesavano  proprio perché sapevi che non era uno di quelli che amano sentire il suono della propria voce. Eppure senza di lui, oggi l’importante quotidiano La Repubblica probabilmente non avrebbe una redazione a Genova.

Alfredo Marchesini è stato giornalista nel Dna, nel midollo. Io l’ho avuto come caporedattore al quotidiano il Lavoro, prima che il giornale diventasse la redazione genovese di Repubblica: dal 1982, quando sono entrato come abusivo, al 1989, quando sono stato assunto come professionista  dal gruppo Espresso e spedito allo storico quotidiano La Provincia Pavese, che apparteneva al Gruppo tramite la Finegil.

Come me, Alfredo era sammargheritese di adozione: entrambi nati a Genova, ci siamo trasferiti qui dopo essersi innamorati e avere sposato una donna di Santa. Alfredo era nato infatti il 13 agosto 1937 a Genova Bolzaneto. E’ mancato troppo presto, il 14 novembre 2003 ad appena 66 anni. E’ stato stroncato da una malattia che forse avrebbe potuto essere curata, se presa per tempo: ma Alfredo non era tipo da correre dal medico al primo acciacco. Non era uno che pensa prima a se stesso e poi agli altri. Per lui al primo posto c’erano la famiglia e il lavoro. Quando il male lo ha costretto a fare degli accertamenti, perciò, ormai era troppo tardi: se ne è andato in poche settimane, quando era ricoverato al San Martino.

I suoi familiari hanno iniziato a vederlo davvero in casa solo nel settembre 1992, quando è andato in pensione. Andava per funghi o a curare l’orto dei Frati.

“Come padre – racconta la figlia Patrizia – era sempre molto riservato e imperativo. Nella sua bontà e riservatezza era ferreo, rigido: quello che diceva lui era da seguire. Ma è normale per  i padri della sua epoca. Poi quando sono nati i nipoti  ha cambiato registro e gli faceva fare quello che volevano”.

Alfredo aveva sempre avuto la passione per il giornalismo e per lo sport, che fin da giovanissimo seguiva come giornalista pubblicista per il Corriere Mercantile e la Gazzetta del Lunedì. I pubblicisti sono quelli che hanno un’altra attività principale e  scrivono articoli nel tempo libero. Lui lavorava per una ditta del ponente genovese, e veniva a Santa per motivi di lavoro. Durante questi viaggi aveva conosciuto la mamma di Patrizia, che aveva un negozio a San Siro. Poi nel novembre 1967 si erano sposati e Alfredo si era trasferito qui. Nessuno sano di mente porterebbe una moglie di Santa a vivere a Bolzaneto. Qualche anno dopo Alfredo aveva fatto il grande salto, e nel 1973 era diventato giornalista professionista dopo essere stato  assunto 18 mesi prima dal quotidiano Il Lavoro. All’epoca il giornale era ancora saldamente nell’orbita del PSI, dato che era nato nel 1903 come organo della federazione socialista della Liguria. Ad assumerlo era stato infatti Ugo Intini, che poi divenne uno dei due uomini di fiducia di Bettino Craxi insieme a Claudio Martelli. Poco dopo subentrò alla direzione Cesare Lanza, e Alfredo dovette ricorrere a tutta la sua capacità di resilienza e amore della professione: andare d’accordo con Lanza è praticamente impossibile e parlo per esperienza personale. Alfredo amava lo sport, e si era avvicinato al giornalismo soprattutto per questo motivo. Le sue passioni erano il Genoa e il ciclismo. Dopo le collaborazioni giovanili da pubblicista, Marchesini aveva quindi iniziato a lavorare  come giornalista professionista alla redazione sportiva del Lavoro, che allora aveva la sede in Salita Dinegro, sopra piazza Fontane Marose. Qualche anno dopo era diventato caposervizio. E’ stato lui a forgiare generazioni di giornalisti sportivi che poi sono migrati in altre testate, dal Secolo XIX a Repubblica, alla Stampa, alla Rai. Penso a Francesco La Spina detto “Ciccio”, Claudio Mangini, Renzo Cerboncini, Gelasio “Gessi” Adamoli, Tarcisio Mazzeo e altri ancora.

“Io l’ho conosciuto nel 1977 quando sono entrato al giornale – ricorda per esempio La Spina – Eravamo una redazione polarizzata: io e  Claudio Mangini sampdoriani; Alfredo e Gessi Adamoli genoani. Ma dato che era il caposervizio, Alfredo è sempre stato imparziale. Il giornale usciva equilibrato per le due tifoserie. Nel 1982 io sono diventato caposervizio al suo posto e lui è stato promosso caporedattore centrale. Di lui, della sua vita privata, sapevamo ben poco. Era silenziosissimo, lavorava e basta, non lo vedevi mai con le mani in mano. Se non scriveva o correggeva pezzi, era alla radiolina per ascoltare le cronache del calcio e del ciclismo”.

In quegli anni Marchesini fa una vita impossibile. Al mattino arriva per primo al giornale, e lavora fino a mezzogiorno. Poi corre a Brignole e prende un treno per Santa Margherita. La moglie lo andava a prendere alla stazione di Santa e lo portava a casa. Lui pranzava con la moglie e la figlia, poi riprendeva il treno e tornava a Genova. Stava al Lavoro fino a mezzanotte, per seguire la chiusura del giornale. A quell’ora non c’erano più treni per tornare a casa. Quindi lui aveva preso una stanza in affitto in un alberghetto di piazza Fontane Marose, che pagava naturalmente di tasca sua. Al giornale lui si occupava di tutto, non era tipo da delegare o scaricare sugli altri le proprie incombenze e responsabilità. Quando aveva la corta e cioè il giorno di riposo, la sua passione era quella di andare a cercare funghi, sempre da solo: era un grande e fortunato fungaiolo. Questo gli permetteva di staccare un po’ dalla pressione del lavoro al quotidiano e ricaricare le pile da solo. Nonostante il carico di lavoro, aveva conservato il suo carattere. Tutti lo ricordano come un uomo mite, gentile, accogliente, che parlava pochissimo in generale e per nulla della sua vita privata. Ha avuto colleghi e direttori oppressivi, antipatici, al limite del mobbing: ma lui ha sempre sopportato tutto stoicamente, senza prendersela, per amore del giornale e della professione. Tutti riconoscono ad Alfredo Marchesini un merito enorme in un’epoca in cui i tipografi erano considerati “L’aristocrazia della classe operaia” ed erano molto sindacalizzati. Nei giornali a tutti gli effetti c’erano due teste pensanti, che potevano facilmente entrare in conflitto fra loro. La tipografia era diretta da due proto del calibro di Paolo Papais prima, e Leonardo Sacchetti dopo. Alfredo era un uomo di macchina, come si dice, nella fattura del quotidiano: non scriveva pezzi in punta di penna o analisi, ma faceva uscire il giornale tutti i giorni. E quindi sapeva parlare alla macchina pensante della testata, la tipografia. Smussava gli angoli, limitava gli attriti, trovava le soluzioni: e il giornale poteva uscire.

Un altro ricordo arriva da Franco Ricciardi, collaboratore storico del Lavoro: “Il mio primo ricordo personale di Alfredo Marchesini risale al mese di settembre del 1977, quando 22enne varcai per la prima volta il portone de quotidiano “Il Lavoro” .Timidamente portai un mio articolo sportivo, di un torneo di calcio amatoriale. Salii la strettissima scaletta e il centralinista, quando chiesi della redazione Sportiva, mi disse di aspettare. Dopo qualche minuto arrivò proprio Alfredo, allora uno dei due responsabili della Redazione.  Mi salutò cordialmente. Gli spiegai che avevo piacere di collaborare con il giornale. Alfredo mi guardò, lesse qualche riga e mi disse di richiamare il mattino successivo, che mi avrebbe detto qualcosa in merito.

Non ero molto fiducioso. Ed invece il mattino successivo chiamai, e dalla Redazione mi rispose proprio Alfredo: “Tutto a posto – mi disse – l’articolo va benissimo, esce domani nello sport”. Restai scioccato: scrivevo su “Il Lavoro”, e proprio grazie a lui, ad Alfredo Marchesini. Di li a poco iniziai a scrivere anche di altri sport, per poi arrivare, l’estate successiva ad essere inviato per Il Lavoro a Livorno, a seguire la gara amichevole Livorno-Genoa. E fu proprio Alfredo a chiedermi di andare, con la sua grande calma e semplicità.

Quando la domenica giocava il Genoa in casa, noi eravamo nella vecchia Tribuna Stampa del Ferraris, con i suoi banchi in legno tipo scuole anni sessanta, con la ribaltina. Alfredo Marchesini era ogni domenica nello stesso banco, un poco defilato; era sempre con la sua immancabile radiolina transistor all’orecchio: allora non esistevano le cuffiette. Sempre gentile con tutti, un uomo d’altri tempi. E fu proprio grazie a lui, ed a Paolo Zerbini e Giorgio Adriani, che iniziai la mia carriera giornalistica”.

Un altro ricordo arriva da Tarciso Mazzeo, che dopo il Lavoro è arrivato a dirigere il TGR del Piemonte.

“Ho conosciuto Alfredo Marchesini nell’ottobre 1978, quando mi sono presentato al Lavoro con un articolo in mano.  Il direttore era Cesare Lanza: durante la sua prima direzione (è stato direttore due volte)  la testata venne ceduta alla Rizzoli che poi  mise alla direzione Giuliano Zincone.

Mi sono subito accorto che Alfredo era un uomo molto semplice ma disponibile, di straordinaria umanità: una cosa abbastanza rara nel giornalismo. Ma non pensate che fosse un pavido. Anzi. Lui non scriveva mai, ma se lo faceva era per prendere posizioni nette. Ricordo che un allenatore, mi sembra fosse Toneatto, era stato cacciato in modo piuttosto brutale da Mantovani, padrone della Samp. Alfredo scrisse un editoriale in difesa dell’allenatore, dicendo che non si tratta così un uomo. E posso garantire che mettersi contro Mantovani a Genova, all’epoca, non era cosa da tutti. Alfredo aveva il suo carattere, anche se lo teneva per sé, e all’occorrenza ha saputo difendere le sue idee. Aveva i suoi ragazzi, tra cui me, che lui ha fatto crescere trasformandoli in ottimi professionisti.  Lui mi ha fatto lavorare molto, facevo paginate a 22 anni, ho potuto farmi un nome, e così poi ho iniziato a scrivere anche in cronaca”.

Possiamo dire che Marchesini ha contribuito molte volte a tenere a galla il giornale durante le numerose tempeste in cui è incappato. Per esempio nel  gennaio 1982, quando Cesare Lanza compra il Lavoro dalla Rizzoli per la cifra simbolica di 1000 lire, nell’ambito di un’operazione piduista voluta direttamente da Tassan Din, e si autonomina  nuovamente direttore. La redazione è molto politicizzata e non gradisce il passaggio da Rizzoli a Lanza: da una dimensione nazionale a una decisamente precaria. Pesa il fatto che Lanza è ben conosciuto al Lavoro. C’è una sollevazione in redazione, vengono dichiarati 18 giorni di sciopero. Alla testa dei rivoltosi c’è Giorgio Carozzi. Nel giro di pochi giorni iniziano a succedere cose antipatiche, la redazione contro la tipografia e  viceversa. Il proto Paolo Papais inizia a contestare la redazione, si va alla spaccatura interna. Il pericolo reale è la chiusura definitiva della testata.

Alfredo dice: “Va bene la vertenza sindacale, ma prima di tutto dobbiamo difendere il giornale. E se non esce, il giornale muore”.

“Alfredo, quello che non parlava mai – prosegue Mazzeo –  in assemblea dice a chiare lettere che è inutile andare avanti nella protesta. La Rizzoli non ne vuole più sapere del Lavoro, tanto che lo ha regalato a Lanza. Poi, come sempre, non ha più aperto bocca e si è messo a lavorare”.

Il giornale in qualche modo torna in edicola. A farlo sono Lanza, Raimondo Lagostena (che poi diventerà amministratore delegato) Marchesini e dai giornalisti Enrico Alderotti e Marco Massa, che era segretario di redazione. Più gli abusivi che devono cercare di farsi assumere e non hanno possibilità di scelta. Si apre una frattura verticale tra redazione e tipografia. In redazione ci sono giornalisti del calibro di Gad Lerner, Lucia Annunziata, Luigi Irdi, Giorgio Boatti, arrivati sotto la direzione di Giuliano Zincone. La redazione degli Interni era diventata il settore forte del Lavoro: aveva perso alcuni dei suoi connotati per acquisirne altri. La nuova èlite culturale, con giornalisti già importanti, aveva spostato l’asse politico del Lavoro molto lontano dalla tradizione socialista della testata. Quando riprendono le uscite regolari, Lanza decide di dare spazio ai più giovani, per tagliare i ponti con la vecchia guardia del giornale. Gli abusivi vengono assunti tutti nel giro di pochi mesi: Roberto Orlando, Teodoro Chiarelli, Riccardo Massa, Paolo Crecchi e altri ancora. Li chiamano Peones. Ma non c’è ancora pace in redazione. La spaccatura politica ormai è insanabile. Tutti quelli che hanno una posizione professionale più consolidata, un nome, se ne vanno. Praticamente tutti quelli portati da Zincone. Lanza offre 20 milioni di lire a tutti quelli che si dimettono.

In compenso arrivano parecchi giovani destinati a fare strada: Gigi Gia, Ava Zunino, Piero Dardanello, Raffaele Niri, Attilio Giordano, Paolo e Gigi Zerbini, Giovanni Allegra (figlio di Antonino Allegra, capo dell’ufficio politico della questura di Milano, presente nella stanza da cui era precipitato l’anarchico Giuseppe Pinelli).

L’ultimo ricordo è di Marco Massa, che dopo la pensione ha fondato la testata Levante News.

“Alfredo era un metodico. Quando è arrivato, il capo dello sport al Lavoro era un giornalista che in redazione veniva chiamato “Cavallo Pazzo”. Faceva i titoli prima che venissero scritti i pezzi, senza sapere cosa contenessero. Pensate a come poteva trovarsi  un uomo pacato e ordinato come Marchesini. Alfredo però era riuscito a mettere un po’ di ordine. Lui lavorava in silenzio e pretendeva il rispetto delle regole. Era perentorio: la prima edizione doveva chiudere entro le 22, per non perdere le coincidenze dei mezzi che distribuivano il giornale; un sistema complesso che allora funzionava come un orologio. Avevo conosciuto Alfredo quando assieme collaboravamo al Corriere Mercatile e Gazzetta del lunedì. In tanti anni, anche difficili per le crisi ricorrenti del Lavoro, non l’ho mai visto discutere con qualcuno o alzare la voce. Credo che la figlia Patrizia abbia il suo stesso carattere”.

Nella foto da sinistra Gessi Adamoli, un ciclista ospite della redazione. Gad Lerner, Manlio Fantini, Claudio Mangini e, seduto, Alfredo Marchesini