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Verso l'anniversario della morte di "dolly" garaventa

Genova, il Genoa e la mamma di Lumarzo. L’insopprimibile “liguritudine” di Frank Sinatra

Generico gennaio 2023

É il 6 gennaio del 1977. Un aereo, il Gates Learjet 24B, decolla dall’aeroporto di Palm Springs. E’ diretto a Las Vegas, dove non arriverà mai. Il suo viaggio termina su un crinale del Passo di San Gorgonio. Qui il velivolo si schianta, per cause sulle quali sono in molti a nutrire ancora dei dubbi, provocando la morte dei 2 piloti e dei 4 passeggeri. Fra di loro, Natalina Maria Vittoria Garaventa, meglio nota come “Dolly” Sinatra, la mamma di Frank. Aveva da poco compiuto 80 anni. Si chiude così, in modo plateale e sotto un alone di mistero, una vita vissuta al massimo. Una vita che aveva subito strappato Natalina, chiamata poi “Dolly” a causa dei suoi lineamenti e della sua fisionomia da bambola (era alta meno di 1 metro e 50), ai suoi luoghi natali.

Fra chi presenziò al celebre concerto genovese del giugno 1987 – bissato due giorni dopo da un’esibizione al Covo di Nord Est, che quella sera toccò probabilmente l’apice della sua epopea – Sinatra fu molto preciso nell’indicare il paese in cui sua madre vide la luce, il 26 dicembre 1896: Rossi di Lumarzo. Per Frank le radici italiane non erano una questione di poco conto, tanto che il giorno del suo stesso funerale seppe e volle omaggiarle. Ma questo è un dettaglio di cui diremo più avanti.

Rossi di Lumarzo, dunque. I legami di Natalina “Dolly” col suo paese natio verranno spezzati durante l’infanzia. La data esatta non la conosce nessuno. Alcune fonti vogliono che la famiglia di Giovanni Garaventa e della moglie, Rosa Casagrande, emigrasse a Hoboken, nel New Jersey, nel 1897. Altre fonti parlano del 1900. Altre ancora del 1903.

Quel che è certo, è che se fosse rimasta a Lumarzo Dolly avrebbe avuto una vita molto diversa da quella che racconta la sua biografia. Troppo “stretta”, la Val Fontanabuona di inizio ‘900, per una donna che in nome del suo amore per un pugile siciliano, Antonino “Marty” Sinatra, si ribellò alla famiglia, fuggì a Jersey City e lì si sposò in municipio. Per i suoi genitori, semplici contadini di una valle che, secondo la storiografia francese, era la “Vandea” italiana, non dové essere una buona giornata. Chetate le acque, infatti, i due si risposarono in Chiesa. Poi aprirono una taverna, decidendo che il proibizionismo non era cosa adatta a loro. E fecero buoni affari vendendo liquori alla luce del sole, sotto la protezione di alcuni funzionari locali. Democratica fervente, femminista verace e appassionata di gioco d’azzardo – le cronache dicono che odiasse perdere – Natalina “Dolly” Garaventa fu decisiva nella vita del figlio almeno per due ragioni: la prima è che lo diede al mondo con grande sacrificio. Frank pesava più di 6 kg, e per tirarlo fuori servì una pinza, causa delle sue cicatrici e della (famosa) perforazione al timpano. La seconda è che credette nelle sue qualità non ostacolando mai  e incoraggiando la sua vocazione anche quando nessuno sembrava disposto a farlo, vuoi perché non era facile leggere i cambiamenti nei gusti musicali dell’epoca vuoi perché i tempi, anche secondo papà Marty, suggerivano di optare per “un lavoro vero”. Non si riflette mai abbastanza su quale sciagura, per il mondo, può nascondersi dietro il retaggio – cattolico? – che “lavoro vero” significhi lavoro bagnato dalla sofferenza. Una via per guadagnarsi la salvezza eterna, anziché la gloria imperitura.

E veniamo al motivo per cui oggi, noi liguri, ci interessiamo ancora alla vita di Dolly: le sue radici fontanine. Non si registrano visite ufficiali, né di Dolly né di Frank, a Rossi di Lumarzo. Solo la quarta moglie di Sinatra, Barbara, si recherà ufficialmente in visita a casa Garaventa, nel 1987. Ma è quasi certo che Dolly Sinatra visitò in incognito le sue lande native a cavallo degli anni ’60, destando anche una certa attenzione per un’eleganza non comune. Difficile anche credere che dietro i vetri oscurati della limousine che all’indomani della visita di Barbara transitò lungo le strette strade di Lumarzo, non vi fosse proprio lui, The Voice, commosso ed emozionato. Lui che teneva molto riserbato il rapporto con sua madre – dalla quale ricevette un’educazione dura, rintuzzata, si dice, da una piccola mazza – ma che dovette celare la paradossale dolcezza contadina, nascosta dietro i modi ruvidi, e una fiducia totale: in questo rapporto si nasconde il perché di quello che resta un aspetto a suo modo misterioso, il legame di Frank con le sue radici liguri. Un legame non formale, non banale, non scontato, visto che non riserbò identico interesse verso l’altro ramo della famiglia, quello siciliano; un legame coltivato con curiosità e passione, soprattutto dopo la scomparsa di Dolly. In un’intervista del 1986 Sinatra definì il suo rapporto con l’Italia di amore e odio: “Odio, perché è stata una patria ingrata che ha costretto i miei genitore a emigrare. Ma c’è anche posto per l’amore, perché in fondo le radici non si dimenticano mai”. Parole curiose, se vogliamo spiazzanti, che celano nodi da sciogliere, conflitti da dirimere, sentimenti da sviscerare e pacificare.

Chi testimonierà la vividezza di questo rapporto sarà il paroliere Giorgio Calabrese, che rivelerà un suo incontro con Sinatra, nel 1978 a Nashville, cuore del country americano: “Quando seppe che ero genovese, gli si illuminò il viso. Mi guardò fisso con quei suoi occhi famosi, azzurro intenso, e disse: devi sapere una cosa, Giorgio. Nel mio cuore ci sono Genova e il Genoa”. Insieme alla fede sportiva, a Sinatra non mancò il secondo tratto caratteristico del ligure sincero: la passione per il pesto, consolidata dall’amicizia con Luciano “Zeffirino” Belloni. Il primo incontro fra i due avvenne nel 1976 dopo il match Benvenuti-Griffith al Madison Square Garden. Nel 1984 la prima visita al ristorante con Barbara e Roger Moore. Ogni due mesi Sinatra riceveva il pesto a Malibù direttamente da Genova. Arriviamo al 1987, data della penultima tournée italiana: Sinatra volle inserire Genova quale terza tappa dei suoi concerti, e considerando la scelta della location, una cassa acustica non proprio eccelsa come il Palasport, non si fa fatica a credere che dovette imporla lui stesso agli organizzatori. Quando morì, nel 1998, volle essere seppellito con la cravatta rossoblu. Perché in fondo, le radici, non si dimenticano mai. Proprio come la mamma.